di Giulia Balbo
L’Italia era un paese tranquillo, con i suoi soliti casini nella politica, la dieta migliore del mondo, le belle arti, eccetera, eccetera. Poi è arrivato il Coronavirus e con esso la chiusura delle scuole e la didattica a distanza. Se fossimo in un film passeremmo direttamente dalla scena bucolica allo scenario post- apocalittico.
Il Covid-19 ha accelerato la digitalizzazione dell’Italia come non hanno potuto o saputo fare le imprese o lo stato negli ultimi 20 anni. Il che da un lato è positivo, finalmente tutti hanno capito che il digitale è un ambiente che ormai fa parte della nostra vita. Peccato che la digitalizzazione non sia avvenuta in maniera pianificata, efficiente, armonica, ma è stata guidata dal puro spirito di sopravvivenza. E quando si corre ai ripari si accaparra quel che si trova.
Il pasticcio della didattica a distanza
Ci sembra doveroso riflettere sulla didattica a distanza – e con questo intendiamo tutto il sistema scuola – perché è quello che forma il futuro, le generazioni che mandano avanti il paese. Se ci giochiamo male la partita i giovani sono fregati.
Gli strumenti
Tra le problematiche che più hanno preoccupato nel corso dell’ultimo anno c’è sicuramente la questione relativa alle piattaforme usate per lo studio. Nel momento in cui la scuola ha chiuso e migliaia di insegnanti hanno dovuto improvvisare delle lezioni online per non interrompere completamente le attività, si è usato quello che c’era a disposizione, “gratuitamente”: Google, Zoom, Jitsi e altri. Questi servizi permettono videoconferenze online ma sono proprietà di privati e hanno dei termini e condizioni d’uso che prevedono la conservazione e la gestione dei dati dei profili che vengono aperti. Da marzo 2020 l’Italia ha regalato a Google, a Zoom i dati di 8 milioni di minori, tanti sono gli studenti italiani.
Senza contare che la sicurezza di questi ambienti virtuali è molto bassa, – soprattutto se chi li utilizza non è preparato per farlo nella maniera corretta e più sicura – non per niente la moda dell’ultimo periodo è quella di hackerare chat e videochiamate scolastiche con video porno, razzisti, e altri contenuti offensivi (ne avevamo parlato anche qui).
Nell’emergenza della pandemia è comprensibile che siano state cercate soluzioni facili, veloci, a disposizione, gratuite. Ma non è accettabile che quasi un anno dopo non si parli ancora di predisporre una piattaforma pubblica, partecipata o controllata dal pubblico. Una infrastruttura di questo tipo garantirebbe che i dati non venissero utilizzati per spingerci al consumo, venderci più giocattoli, videogame o scarpe ma venissero aggregati e valorizzati per importanti azioni contro la dispersione scolastica, per l’accessibilità e di conseguenza per investimenti sociali utili. Inoltre, la progettazione e scelta di una piattaforma pubblica aiuterebbe i ragazzi a capire che esiste lo Stato e ti aiuta, che il digitale pubblico è un diritto – perché oggi il digitale è essenziale come l’acqua – e non è solo privato e americano o cinese. Infine eviterebbe alle generazioni future il pesante costo di perdita di democrazia, economia e uguaglianza che implica la attuale non scelta di un digitale pubblico.
Le competenze nella didattica a distanza
Nello stesso spirito di improvvisazione, gli insegnanti si sono collegati a un pc e hanno iniziato a fare didattica a distanza: lezione davanti a uno schermo. Sicuramente ci sono casi di persone illuminate, all’avanguardia, innovative, che hanno saputo fare delle lezioni online un punto di forza. Ma la maggior parte del corpo insegnanti si è ritrovato a utilizzare un mezzo che non governa, e di cui spesso non sa molto. Fare lezione a degli studenti è già difficile in una classe, con la porta chiusa e relativamente poche distrazioni. Dietro la finestrella della chat, invece, c’è tutto un mondo, che gli insegnanti non possono vedere, proibire o controllare. Considerato tutto questo, poi, fare lezione alla lavagna o davanti allo schermo è una cosa completamente diversa. Trasportare la valutazione con interrogazione o verifica online non ha alcun senso. Per ogni modo di copiare scoperto ce ne sono dieci nuovi inventati.
La soluzione si chiama formazione. Gli insegnanti devono essere messi nella condizione di operare in un campo che conoscono. C’è bisogno di formazione sul digitale, di corsi di aggiornamento. C’è bisogno di perfezionare un nuovo metodo di insegnamento onlife (cioè che includa online e offline, poiché al giorno d’oggi non sono più separabili). Ma non si parla di qualche ora una volta al mese. Sono necessari un programma complesso e corposo che fornisca competenze solide e reali e la disponibilità a mettersi in gioco e rivedere completamente il metodo scolastico.
Speriamo tutti che bambini e ragazzi rientrino presto in classe, ma la didattica a distanza, se fatta nel modo giusto, ha delle potenzialità che potrebbero continuare a essere sfruttate anche una volta terminata la pandemia.
Il diritto alla disconnessione
Le due questioni di cui abbiamo appena parlato portano poi ad un terzo problema, spesso considerato minore, ma che influisce fortemente sulla qualità della vita. Si tratta del diritto alla disconnessione. Tanto per gli insegnanti quanto per gli studenti.
Per quanto riguarda gli insegnanti, senza gli strumenti adatti e le competenze giuste è facile cadere nella trappola della iperconnessione. Pensate alle chat di Whatsapp sempre presenti nelle nostre giornate, e che ora includono anche quella con gli studenti, di ciascuna classe, di ciascuna materia, di ciascun istituto.
Per quanto riguarda gli studenti invece, non si può pensare che passino online lo stesso numero di ore che passavano in classe. È pedagogicamente sbagliato e non ha alcun senso, oltre a non essere produttivo.
In questo senso, l’Unione Europea sta muovendo dei passi, ma serviranno a poco in ambiente scolastico, se non vengono presi dei provvedimenti anche per quanto riguarda strumenti e competenze per studenti e insegnanti.
Finché la scuola sarà un diritto e un servizio, sarà lo Stato a doversi fare carico di queste problematiche, per proteggere e sviluppare la società civile, senza e con il Covid19. Google e Zoom hanno ben altri obiettivi.
Un pensiero Sloweb